“Forse aveva ragione Baudelaire. La scultura è un’arte da primitivi. Richiede una dimensione che non è quella del dinamismo metropolitano, un tempo che è inconciliabile con l’effimero della civiltà dei consumi, uno spessore significante che non può appiattirsi sull’hic et nunc,…>>
Soprattutto quando la via scelta è quella del “levare” e quando l’artista si misura con materiali che richiamano e sono la natura, l’incontro-scontro con quanto è più duraturo, più forte, impenetrabile, inevitabilmente dilata il gesto dello sbozzare, del tagliare, del levigare oltre la manipolazione formale, il gioco colto del rimando culturale, l’intelligente circoscrizione metalinguistica (…)
Quanto tutto ciò sia-o possa essere-vero lo prova il lavoro di Giancarlo Sangregorio, che è della razza degli antichi lapicidi. Da sempre ha scelto di dar forma propria e nuova alla materia, non di modularla, cesellarla, accarezzarla. Sangregorio ha esplicitamente risentito delle sollecitazioni che gli venivano dal dibattito interno delle arti, sin dai primi anni del dopoguerra, quando avvenne la sua formazione. Si contrapponevano allora figurazione e astrazione, fuori quasi sempre da un dialogo vero e proprio, e lo scultore deve aver avvertito la artificialità di tali contrasti, traendo da quanto lo circondava soprattutto l’aspirazione alla modernità, in un nuovo rapporto con le proposte più avanzate dell’arte internazionale dei primi decenni del secolo. Coglie la potenzialità della varia articolazione di forme desumibili dal cubismo e dai suoi sviluppi, nonché dall’azzeramento semantico dell’astrazione più rigorosa: non cade però nella gratuità di tanto postcubismo nostrano né accoglie la scansione purista di forme autosufficienti(…). E più tardi, con la stessa attenzione e insieme lo stesso distacco, partecipa delle vicende dell’informale, che per lui significavano specialmente il sottolineare le prospettive insite nell’utilizzazione della materia fuori da ogni preconcetta organizzazione strutturale. Il vero Sangregorio nasce però dal sedimentarsi e intrecciarsi di tante suggestioni negli anni dal 1960. Con le “grandi pietre”, prima, in un libero e fuso far grande con interventi sul serpentino, sull’arenaria, sulla pietra ollare o su quella di Angera, e poi in una splendida serie di legni: dove il riferimento alla figura umana è amplificato nel mito e la vicenda vissuta nella storia, come gli stessi titoli (“Testimoni”, “Genesi”, “Genealogia”, “Niobe”) sottolineano; e dove va affiorando quell’incastrarsi di forme nelle forme, di materia nella materia che poco a poco assume sempre più perentoria efficacia. Permettendo tra l’altro l’incontro di materie, oltre che di forme, diverse. E saranno prima pietre e legni, poi negli anni seguenti, pietre e vetri, o pietre, legni e vetri”.

(Luciano Caramel)


“Senza troppo rumore, avvertendo in ogni momento quanto sia pesante il destino di un vero artista, Sangregorio ha goduto e sofferto il nostro periodo …>> in cui il lusso delle idee non ha potuto nascondere, come lo potè dietro i marmi e le colonne la generazione dei nostri padri, la vera tragedia dell’artista che avverte l’incontenibile tumulto degli stimoli e delle voglie di vero e di nuovo che si agita dentro e fuori, ma sa che le leggi del bello (usiamo ancora questo termine) chiedono severità di ricerca e metodo di lavoro. Voglio per Sangregorio, irritando forse i benpensanti che avranno la pazienza di leggere, citare una massima “stoica” dell’epicureo Orazio, il poeta latino: “Est modus in rebus, sunt certi denique fines”, c’è una regola invalicabile nelle cose, sono insomma ben delineati i confini, nella vita, nell’arte, in tutto l’agire degli uomini”.

(Raffaele De Grada)


“Il vero discorso inizialmente dicromico è legato alla “simbiosi” fra la luminosità della pietra, dalla pienezza del marmo alle varietà di grigio dal granito alla pietra ollare, e le diverse oscurità del legno…>> Al di là di questa dicromia di fondo, e in connessione con la sempre maggior sintesi e compattezza dell’aggregazione litica che garantisce comunque l’intima essenza plastica dell’opera, Sangregorio si concede raffinatezze sempre maggiori di pietre variegate di ogni angolo del mondo e di legni nobili: innanzitutto il serpentino e i graniti, del Labrador, rosso di Svezia, grigioverde di Nigeria, blu di Namibia; e l’iroko, il cedro del Libano, la quercia da sughero, il legno di thuja. Negli anni ’80 e ’90, in affascinante contrasto e alternativa al riemergere dell’espressionismo monumentale (in cui tuttavia le dicromie e le pietre esotiche giocano un ruolo importante), alla sperimentazione ceramica, abbinata a singolari incroci di metalli e porcellana, si affianca nelle simbiosi la scelta di colori litici sempre più raffinati, onice e marmi bianco scintillante del Brasile, rosa del Portogallo, neri maquinia, della Val Loana e di Spagna, diorite e albastri verde di Persia bianco del Pakistan, travertino rosso di Persia. Tutta la storia geologica del mondo si pone al servizio di questa inesausta ricerca dell’interiorità, dello spirito vitale misterioso della sfera minerale.

(Marco Rosci)


“Giancarlo Sangregorio è uno dei pochissimi scultori, e più in generale dei pochissimi artisti, che dopo aver messo a punto un cifrario stilistico ben definito e riconoscibile, un’immagine che gli appartiene per possesso certo e indiscusso, …>> invece di insistere e assecondare mercato e aspettative critiche, si avventura ad esplorare nuove terre incerte e pochissime cognite, rimette in discussione tutto per riprendere la via del mare, in base ad un’esigenza assolutamente personale, soltanto sua. Certo alcuni caratteri restano. E’ sempre attratto dalla natura, infatti, l’artista lombardo, natura intesa come modo di esistere, ritmo, regola, ma anche “natura dei materiali”, delle pietre, dei sassi e del legno. Sangregorio ha sempre cercato di capire e di rispettare questa natura, per esempio prendendo amorevolmente nota degli anelli di crescita di un tronco, delle rughe di un pezzo di corteccia, e di farne per esempio un rilievo, un’impressione nella carta spessa. Adesso sembra voler fare ancora meno, lasciare alla pietra, soltanto alla pietra, l’occasione di rivelarsi per quello che è, apparire in tutta la sua “naturale” bellezza, quasi nella sua verità: come se la pietra fosse un ready-made, nato e cresciuto nel cuore delle montagne, al calore tellurico del magma. La transustanziazione in opera è data quindi “soltanto” (ma non è cosa da poco) dall’accostamento fra materia e luce, quella luce che la esalta nei valori cromatici e nel paradosso di una consistenza sempre più immateriale. La massa è diventata così profonda, la superficie è diventata colore, lo spazio luce. Qualche volta gli accostamenti che l’artista realizza hanno il sapore quasi provvisorio dell’assemblage, sono aperte infrazioni ad ogni regola formale, piani di collisione fra schegge, vetri, corpi taglienti, che si lasciano completamente attraversare dagli sguardi e pervadere dalla luce, provocando l’idea di ordine con una condizione, uno stato di diffusa e dilagante entropia”.

(Martina Corgnati)